Bologna è una città circondata da affioramenti di gessi miocenici, alcuni dei quali insistono proprio nello stesso comune: quello di monte Donato per secoli diede materiali per la costruzione di numerosi palazzi e torri. La parte più consistente di queste rocce evaporitiche però sono ubicate nel comune di san Lazzaro di Savena e consistono nelle zone attorno alle località della Croara che vanno dal fiume Savena allo Zena e del Farneto che vanno dal torrente Zena al fiume Idice.
Delle grotte del bolognese ne scrisse già Serafino Calindri alla fine del secolo XVIII. Fu comunque Francesco Orsoni nella seconda metà del secolo XIX a dare inizio a ricerche speleologiche con la scoperta della grotta del Farneto e del suo straordinario giacimento preistorico visibile nel Museo Civico Archeologico di Bologna. Le vicende umane di Orsoni sono state sviscerate da Claudio Busi, che ha avuto modo di approfondire le interessanti e spesso dolorose fasi della vita di questo pioniere della speleologia bolognese. L'esplorazione delle cavità sotterranee di questa provincia fu iniziata in modo organico nella prima metà del secolo XX principalmente con l'attività di Luigi Fantini, archivista comunale con spiccate doti di naturalista, che si svilupparono con la fondazione di un gruppo grotte affiliato alla sezione locale del CAI. Furono anni feraci, con l'esplorazione di numerose caverne e principalmente con la scoperta della grotta della Spipola nel contesto della Croara e l'edizione da parte di Fantini stesso di "Le grotte bolognesi", nel 1934, prima opera organica di speleologia bolognese che si inseriva degnamente nell'ambito della speleologia italiana e che vide la valorizzazione speleologica e turistica della grotta di Postumia ora in territorio sloveno e l'organizzazione di un catasto nazionale delle cavità. Attorno a Luigi Fantini si erano coagulati validi speleologi come i fratelli Ludovico e Giulio Greggio, Gianni Venturi, Vittorio Martinelli ed altri che diedero un decisivo contributo al successo del Gruppo Speleologico di Bologna. La guerra scompaginò l'associazione ed ognuno ebbe i suoi problemi durante i lunghi anni del conflitto e nel periodo della Repubblica Sociale Italiana anche perché per mesi Bologna divenne località nell'immediata retrovia della Linea Gotica con la pesante attività dei repubblichini e dei tedeschi. Alcune grotte divennero rifugio per partigiani che riuscirono così ad evitare i numerosi rastrellamenti.
Finalmente il 21 aprile 1945 le truppe polacche e quelle alleate entrarono in Bologna, liberandola da giogo dei nazi-fascisti.
Intanto Luigi Fantini si era imbarcato in altre avventure interessantissime, fra cui quella dell'inventario delle sorgenti bolognesi e la scoperta e fotografia degli antichi edifici della montagne bolognesi, che prima fu edito in forma contenuta nel 1960 e poi in forma completa con due superbi volumi sponsorizzati dalla Cassa di Risparmio di Bologna che ancora fanno testo nelle ricerche dell'antica edilizia montana. Ma il genio investigativo di questo autodidatta, nato fra l'altro proprio nella casa a fianco della grotta del Farneto, lo portarono a riprendere le ricerche paletnologiche iniziate quasi cent'anni prima da Giuseppe Scarabelli di Imola e dal il professor Giovanni Capellini eminente geo-paleontologo fondatore e direttore della facoltà di geologia dell'Università di Bologna e del relativo e notevole museo. Le ricerche di Fantini lo portarono alla scoperta di numerosissimi reperti del Paleolitico classico e di una sorta di Paleolitico arcaico costituito da ciottoli di selce e ftanite appena abbozzati e molto fluitati che egli individuò nelle puddinghe del Pliocene di Livergnano e del monte delle Formiche. Questa straordinaria scoperta diede a Fantini non solo grandi soddisfazioni, ma anche molte amarezze per i giudizi spesso critici della scienza ufficiale che non ebbe però mai modo di indagare seriamente se i reperti era veramente umani o casuali. Fra l'altro, nei primi anni Cinquanta, Fantini ebbe modo di scoprire una necropoli nel Sottoroccia di fianco alla grotta del Farneto che diede numerosi scheletri oggi visibili presso il Museo Archeologico di Bologna. In questi anni alcuni speleologi dell'anteguerra erano tornati alla vecchia passione speleologica come i fratelli Greggio e Venturi, mentre Martinelli era andato in Venezuela a cercar fortuna. Malgrado i diversi interessi che ormai erano perseguiti da Fantini, questi continuò a dirigere le attività dei suoi amici speleologi fin tanto che un dissidio proprio relativo a qualche osso del Sottoroccia li separò in modo traumatico. I Greggio e Venturi si staccarono decisamente da Fantini fondando, solo sulla parola, il Gruppo Grotte Francesco Orsoni di Bologna.
Assente ormai Luigi Fantini dalla speleologia, si associarono al Gruppo Orsoni Giuliano Gallingani e Giorgio Gasperini che continuarono l'esplorazione delle grotte già scoperte, per tentare di trovare nuove diramazioni. Nel 1955 si unirono a questa compagnia i giovanissimi Romano Guerra e Gianni Burnelli detto Gianni il Bello (in antitesi a Gianni Venturi) a cui dopo breve tempo seguirono Giancarlo Pasini detto el Paso, Dante Travaglini detto Travaglio, Cesare Zanon detto il Butargo, Claudio Cantelli detto Palla, Cesare Saletta, Vittorio Veratti detto Locco, i gemelli Luigi e Giuseppe Jacquaniello detti gli Sticcali ed altri.
Anche Martinelli, tornato dopo una proficua esperienza in Venezuela, aderì al gruppo per un certo periodo.
Il nomignolo di Palla affibbiato a Cantelli era dovuto all'abbondanza del corpo e numerosi amici si sono sempre chiesti come faceva a passare per certi cunicoli che Vico faticava ad entrare. Claudio che frequentava l'università, organizzò un incontro con il professor Franco Anelli, boss della speleologia italiana nell'ufficio del professor Michele Gortani: i due riservarono una calorosa e paterna accoglienza che portò tutti a sentirsi più alti di qualche centimetro. Gortani, malgrado il dissesto dell'edificio e relativa chiusura, portò gli ospiti a visitare il museo geo-paleontologico Giovanni Capellini. La visione di tanti straordinari fossili fu la ciliegina posta sulla torta di una indimenticabile giornata.
Il Gruppo si riuniva nel laboratorio tuttofare, ubicato in via Roma (ora via Marconi), in cui Gianni Venturi, dopo aver lavorato un'intera giornata a fare il Muratore (l'emme maiuscola non è un errore, perché Gianni Venturi di questo mestiere se ne fece sempre un vanto), arrotondava gli introiti con la produzione di bottoni artigianali per alcune sartorie. A dire il vero si trattava più che altro di una camera annerita dal tempo, da secoli non imbiancato, che mostrava tutta la sua decrepitezza di fianco alla casa natale di Luigi Galvani nell'allora via Roma, divenuta successivamente via Marconi, risparmiata per l'intercessione di qualche santo, dalla distruzione che portarono le fortezze volanti alleate in un pesantissimo bombardamento che distrusse quasi completamente il borgo delle Casse. Questa stanza però allo stesso tempo era una straordinaria fucina di progetti e di esplorazioni che si realizzavano con l'uscita domenicale e l'immancabile appuntamento alle 7 del mattino a casa di Gianni Venturi in via Mondo il quale non volle mai l'incarico di capobranco, ma lo fu realmente. Lì in via Roma venivano riparate le lampade a carburo, cambiati i beccucci, rifornite di carburo acquistato alla drogheria della Pioggia, costruite le scalette con filo d'acciaio da sei millimetri e coi manici di scopa, allora esclusivamente in legno, che recuperava Romano Guerra nell'industria paterna ed altre "produzioni": robe che farebbero inorridire gli attuali speleologi, ben più avvezzi ad affidarsi alle nuove tecnologie e non lasciar nulla al caso, esattamente il contrario di quanto facevano i componenti del Francesco Orsoni, avvezzi spesso a far nozze con le lumache, ma a volta anche senza quelle. Quei pochi che usavano le torce elettriche si dovevano arrangiare a cambiare batterie e a tenersi la lampadina di scorta; fra tante pile elettriche tutte rigorosamente in lamierino e made in Italy, solo Guerra aveva scovato una torcia in alluminio tornito della Pagani che aveva il pregio di essere impermeabile. A quei tempi il casco che oggi accompagna ogni più lieve movimento in grotta non esisteva, nè se ne sentiva la mancanza. Quando certe grotte presentavano tracciati verticali veniva usato per la protezione della testa l'elmetto militare (quello italiano era ottimo), che si comperava, a prezzi assolutamente accessibili nell'allora incredibile mercato dell'usato della Piazzola di Bologna al venerdì, dove molti residuati bellici erano disponibili in abbondanza, come certi martelli con punta (da non confondere con i "fichissimi" martelli americani di oggi che molti portano e pochi usano), i machete, oggi severamente vietati, utilizzati per sfoltire il sottobosco alla ricerca di sempre nuove cavità, le vanghette ripiegabili americane e i picconcini tedeschi, per non parlare delle gavette militari italiane, le borracce in acciaio inossidabile delle truppe americane con relativo cinturone, scarponi, zaini, borselli, ed altri indumenti, poveri ma pratici, che formavano la divisa dello speleologo "orsoniano", a cui si aggiungevano le classiche mazze da due chili e gli scalpelli comperati nella ferramenta vicino alla chiesa della Pioggia, e i vari copricapi di cui ognuno andava fiero.
In quella oscura stanza erano spesso presenti le sorelle di Gianni, Lina e Ada e la madre Desdemona. Entrando in faccia e sotto l'unica finestra della camera c'era un tavolo tutto fare che appunto serviva ad ogni bisogna. Nella parte centrale c'era un tornio che serviva a Gianni per la produzione di bottoni che poi venivano curati dalle sorelle. Sul fondo c'era un letto per riposare durante la pausa del mezzogiorno per chi lavorava poco lontano dal laboratorio e nel poco spazio rimasto c'era un fornello che serviva alla cura del cibo, ma molto più frequentemente serviva a Desdemona a produrre tegami e tegami di caffè che in quell'ambiente mai mancò e che veniva attinto col mestolo da minestra e distribuito nei bicchieri di vetro infrangibile. Il contenuto di questo pentolone, vista la frequenza con cui si attingeva per familiari ed ospiti non aveva vita lunga: così era raro non vedere Desdemona intenta a nuove produzioni di questo caffè. L'ambiente stesso, in certe ore della giornata, quando veniva riempito ogni ambito nel tardo pomeriggio da speleologi e familiari era avvolto da una atmosfera nebbiosa che scaturiva dalle numerose sigarette accese, ma principalmente de quella a marca "Alfa" fumate da Gianni Venturi e da qualche altro presente. A quell'ora, in quasi tutti i giorni lavorativi della settimana affluivano i vari interessati alla speleologia per portare le novità, ma principalmente per trovarsi fra tanti amici che condividevano questa straordinaria passione. Ogni tanto c'era l'"uscita pepata" di argomento femminile, ma questo non scivolò mai in commenti pesanti né mai si sentì commento su qualche parente o amica conosciuta. Spesso Vico Greggio se ne usciva con le sue storie e allora l'atmosfera si faceva fantastica per i racconti e le avventure autobiografiche e amorose recitate con tale perizia da far invidia agli attori più famosi.
A parte alcuni testi di speleologia allora presenti fra cui il mitico "Duemila grotte" di Bertarelli e Boegan, e quei pochissimi che cominciavano ad uscire negli anni Cinquanta, i libri più consultati erano i tomi del Dizionario corografico di Serafino Calindri, che Gianni Venturi teneva sotto al letto in una cassetta di Bianco Sarti. In caso di gravi diatribe sulle località destinate alla esplorazione, si tirava fuori la reliquia bibliografica e dopo opportuna lettura da parte di Venturi, se ne traeva le opportune decisioni.
Il Francesco Orsoni che mai ebbe uno stemma definito, aveva però un motto, orrendamente volgare, irripetibile di cui i componenti giovani e vecchi ne andavano fieri. Qualcuno si era fatto ricamare sul cappello la sigla del gruppo e le iniziali del motto e cioè GGBFO e ABDC. Ognuno li interpreti a suo modo.
Nei primi tempi tutti i componenti si muovevano in bicicletta, ma ben presto fecero la loro comparsa i ciclomotori e il gruppo assunse maggior autonomia con l'esplorazione di cavità anche nella parte più lontana della montagna bolognese. Cominciò questa evoluzione motorizzata Venturi che comperò prima un Moschito 38 per passare al Moschito 49, poi al Guzzino e finalmente al suo amato Galletto su cui sembrava intronato e che lo accompagnò per tanti anni. Si motorizzò anche Guerra con un Motom 48 il cui sedile posteriore non rimase mai vuoto durante le varie trasferte. Gallingani si concesse un Cucciolo della Ducati che aveva un vizio di nascita: si rompeva frequentemente la chiavetta del volano-magnete. Allora il Giuliano fra santa pazienza e qualche moccolo, dove si trovava, smontava il pezzo e lo riparava con le chiavette di scorta che non mancarono mai nelle sue tasche. Vico, Giulio ed altri rimasero ancorati al mezzo a due pedali. Oltre alla speleologia, saltuariamente venivano organizzate escursioni per esplorare calanchi e località di interesse geologico alla ricerca di minerali e fossili. Famosa fu l'escursione che vide i componenti vagare per i sentieri che andavano da Rocca di Badolo a monte Adone dove il gruppo ebbe modo di visitare la grotta delle Fate e le meravigliose guglie in arenaria di quel monte. L'escursione in parte filmata con una cinecamera di 8 millimetri finì per la via di Brento e poi a Bologna. Fu anche organizzata dai giovani una spedizione astronomica a monte Adone in occasione dell'eclisse totale di sole del 15 febbraio 1961 a cui si unirono anche alcune fidanzate: uno spettacolo indimenticabile sulla montagna più suggestiva dell'Appennino bolognese.
Ci furono altri deragliamenti da temi speleologici come quando Zanon e Guerra si misero in testa di scendere il fiume Reno da Porretta a Bologna su una zattera di camere d'aria da camion o di costruire un elicottero monoposto col motore di una Vespa per meglio esplorare le zone carsiche. Malgrado le benedizioni dei veterani, per fortuna i progetti non ebbero seguito.
Non meno famosa fu l'escursione in treno proprio a Porretta Terme per l'esplorazione di una grotticella posta sopra la grande cava.
Il lungo tragitto del convoglio che faceva tutte le fermate fu vivacizzato da una carrozza in cui gli speleologi ebbero modo di raccontare alcune pepate storielle. Dopo la visita alla cavità, nelle vicinanze della stazione i ragazzi improvvisarono una tremenda zuffa con risa e schiamazzi: roba da pazzi! Ebbe a commentare qualche passante di quella tranquilla cittadina.
I risultati delle ricerche speleologiche portarono alla scoperta delle grotte Secca, Novella, Silvio Cioni, all'apertura di nuove diramazioni in parecchie cavità, al tentativo nella grotta del Farneto di risalire il torrentello che scorreva sotto il piano turistico e l'esplorazione della buca di monte Salvaro a cui parteciparono tutti i componenti del gruppo. Questo episodio fu un momento di gloria per il gruppo Orsoni che si vide proiettato alla ribalta della stampa locale che ne aveva pubblicato un'ampia cronaca. Qualcuno aveva comunicato al giornalista che il fondo della cavità era a 129 metri dall'ingresso e la stampa ne diede notizia. Una successiva verifica ne ridimensionò la profondità ad una cinquantina di metri. Ma gloria fu.
Per ragioni inspiegabili il gruppo privilegiò la zona del Farneto nelle sue escursioni. In una campagna di ricerche fu scoperta la grotta Secca che necessitò di qualche magistrale colpo di scalpello del Venturi per poterne esplorare ogni diramazione. Fu appunto durante questa campagna che Guerra, un certo giorno, mentre gli altri se la godevano alla grotta Secca, se ne andò in solitaria ad esplorare una fetta della dolina di Ronzano armato del suo amato machete. In un groviglio di sterpi vicino ad un affioramento di gesso, letteralmente scivolò dentro ad una cavità. Straordinaria fu la visione: lo stretto budello iniziale si apriva in un vasto salone cosparso di paglia e con numerosi resti di permanenza di uomini, un probabile nascondiglio di partigiani. Più oltre si apriva un profondo pozzo.
Soddisfatto, se ne tornò fuori ad annunciare agli amici la scoperta.
A memoria di uomini, la grotta era sconosciuta e Romano la chiamò Novella in omaggio alla madre. Il tempo cambiò nel giro di pochi giorni ed una discreta nevicata coprì l'Appennino bolognese: ogni ricerca fu sospesa, ma il racconto del pozzo infiammò la fantasia del gruppo. Oltre a Guerra, Pasini era talmente in calda che propose a Romano una disperata esplorazione a tutti i costi. Pasini non sapeva andare in bicicletta, ma l'ardore superò ogni difficoltà. Guerra se ne andò a San Lazzaro in bicicletta all'ultima fermata del tram con cui arrivò Giancarlo: con due spezzoni di scalette (quelle a manici di scopa) Romano caricò Giancarlo sul cannone del velocipede, mentre l'equipaggiamento gravava nello zaino militare. La strada san Lazzaro-Farneto era una lastra di ghiaccio, ma furore e abilità portarono i due alla casa del Farneto dove fu abbandonato il mezzo di trasporto. Iniziò la salita in mezzo alla neve vergine di una ventina di centimetri e si arrivò alla grotta Novella. Scivolati nel buco, i due prima diedero un'occhiata al salone poi affrontarono il pozzo. Si decise che Pasini scendesse per primo con la corda di sicurezza tenuta da Guerra e alla risalita ci avrebbe pensato il cielo.
Il pozzo si rivelò essere una ventina di metri e le scale furono sufficienti alla bisogna. I due scesero e dopo la contemplazione della lunga colata di alabastro, decisero di risalire. Per la salita Guerra, un po' più esperto, si fece la scala in libertà per poi calare la corda a Pasini che attendeva in fondo. Giancarlo si legò la sicurezza ed iniziò la salita. Un po' di fango sotto gli scarponi a metà del pozzo lo fece scivolare ed egli rimase attaccato con una mano alla scala e trattenuto dalla corda di sicurezza. Dopo il primo attimo di smarrimento Pasini si riassestò sulla scaletta ed arrivò alla sommità del pozzo. Fu un momento di grande euforia per il risultato dell'esplorazione e per lo scampato pericolo. La sera del giorno dopo i due giovani (non arrivavano a trentacinque anni insieme) annunciarono al gruppo che anche la Novella era stata esplorata.
Dell'esplorazione della Silvio Cioni si è persa ogni memoria.
L'escursione alla zona del Farneto imponevano una sosta all'Osteria della Pulce dove veniva fatto il rifornimento di salsiccia: venti centimetri cadauno, misura che veniva stabilita con un normale metro per lo più gestito da Gallingani per poi passare alla bilancia del gestore. Ognuno comunque aveva proprie riserve di cibo che poi venivano fraternamente divise fra i componenti la spedizione: c'era sempre disponibilità di formaggi, mortadella, tonno e della famosa cipollata che Guerra si portava nella sua gavetta d'alluminio italiana e che veniva distribuita agli amici come contorno. La salsiccia veniva divisa e cotta al fuoco improvvisato con bastoni del sottobosco. Famose rimasero quelle all'imbocco della grotta del Coralupi. Per bere, solo acqua.
La "dirigenza del gruppo" era alquanto allergica ad ogni forma di approccio scientifico, ai rilevamenti topografici e termometrici, all'inanellamento dei pipistrelli e a tutte quelle forme di studio che erano ormai costantemente praticate da tutti gli altri gruppi. Solo Gallingani e Gasperini si diedero al rilievo delle cavità e ogni tanto ci provarono anche Pasini e Guerra, ma i mugugni degli anziani erano sottovoce, ma costanti. I primi due se ne andarono e il gruppo continuò la sua attività nell'anarchia come aveva sempre proceduto.
Sulla via del ritorno era d'obbligo una sosta all'Esedra all'angolo di via Jussi con la via Emilia per un buon caffè. L'arrivo di questa masnada quasi sempre ben infangata inorridiva il barista di quel sito elitario, conosciuto in ambito nazionale per attività osè, il quale in tutti modi non proferì mai critiche per la presenza di avventori decisamente fuori luogo, mostrandoci il suo disagio solo con sguardi severi. Il ritorno proseguiva in gruppo fino all'altezza di via Azzurra dove si scioglieva e ognuno prendeva la strada di casa. Il trio della parrocchia di sant'Antonio dei Savena, Burnelli, Guerra, Zanon passava bello sporco dal Dispensario dove ad un gruppo di ragazzette coetanee raccontavano le loro imprese quotidiane e gloriose in grotta gonfiando chiaramente il petto per l'orgoglio.
Quando gli speleologi passavano nelle vicinanze della grotta del Farneto, era d'uso andare a fare un omaggio alla madre di tutte le grotte bolognesi. Capitava che qualcuno affondava la vanghetta nel terreno archeologico e ne veniva fuori qualche coccio. Quando la quantità di frammenti di vaso raggiunse la capienza di un cartoncino, il materiale fu consegnato alla Sovrintendenza alle Antichità. Questa pratica era invisa a qualche cercatore con interessi ben più marcati che operava in solitudine o in compagnia. Un paio di questi non tardò di riportare a Fantini, che era fra l'altro ispettore onorario, "lo scavo abusivo". Come qualche volta capitava al "vecchio", questi andò su tutte le furie e sporse denuncia ai presunti tombaroli. Ogni componente il gruppo fu raggiunto da una denuncia e tutti si prepararono alla difesa. La notifica arrivò anche a Travaglini che era ricoverato a Porto Potenza Picena per curarsi una malattia: Travaglini si vide arrivare i militi al sanatorio e fu convocato alla caserma dell'Arma per redigere il verbale. Un terremoto. Quando però gli imputati furono convocati e fu data l'univoca e veritiera versione dei fatti con tanto di ricevuta dei cocci da parte della Sovrintendenza, le accuse decaddero e finì l'incubo durato mesi. Travaglini, che malgrado tutto non aveva rotto i rapporti con Fantini ebbe modo di spiegargli come veramente erano andati i fatti e Fantini, uomo integerrimo e di specchiata onestà, ammise l'errore, tanto che malgrado la sua posizione elitaria, chiese scusa a tutti coloro che ne erano stati coinvolti. Peggio andò ai delatori che in tutti i modi sparirono dalla circolazione, uno adiritura morì. Il vizio della lingua biforcuta aveva anni prima già colpito Romano Guerra il quale seppe la verità proprio da Fantini. Acqua passata.
Come in tutti i consessi umani, uno degli argomenti che frequentemente tenevano banco era la critica degli assenti, ma nella maggior parte dei casi erano temi di speleologia che venivano affrontati in previsione della sortita domenicale.
Ogni tanto nel gruppo sorgevano dissensi e "guerre civili" che erano per lo più generate da alcuni atteggiamenti di Gianni Venturi, ma non solo, che spesso sfociarono in allontanamenti, defezioni e iscrizioni in altri gruppi speleologici che intanto erano sorti. Ci fu anche il periodo dei Nordisti e dei Sudisti che a volte si confrontavano da una parte o dall'altra di un bar di via Roma. Alcune fratture si rivelarono insanabili, mentre per altre interveniva la mediazione di qualcuno con ritorni al gregge e relativi festeggiamenti. A Romano Guerra una di queste uscite dal Francesco Orsoni e iscrizione al CAI costò la moglie in terra umbra proprio dentro alla grotta di monte Cucco in comune di Costacciaro. Non poteva non essere così.
Le ragazze raramente partecipavano alle escursioni e la loro assenza era particolarmente apprezzata perché il linguaggio era normalmente farcito da frasi allora non consone a orecchie femminili ma all'altezza del dialetto dei bassifondi bolognesi.
Negli anni Sessanta si era instaurata fra gli elementi più giovani del Francesco Orsoni l'abitudine di trovarsi al bar Vittorio sotto palazzo re Enzo per poi infilarsi nella buca Genasi in via Marescalchi dove, al venerdì sera, si esibivano i mancati cantanti lirici. Era Giuliano Gallingani che oltre alle qualità di speleologo scientifico aveva una voce tenorile che appunto esibiva in quello scantinato insieme ad altri colleghi canori. Giuliano aveva una voce modesta a confronto di un certo Giovanni Fattorini che possedeva una gran voce, ma gestiva la sua vita in modo disastroso. Quando Gallingani prendeva posto e iniziava la sua "prestazione" di fianco ad un pianoforte con un paio di note non proprio accordate, ogni tanto se ne usciva con una delle sue stecche che metteva in crisi i padiglioni auricolari dei presenti. In ogni modo e malgrado tutto, riprendeva la cantata che finiva sempre con scrosci di applausi, ovazioni, congratulazioni e qualche bicchiere di vino per coloro che ne erano avvezzi. La serata proseguiva con numerosi altri interventi canori, richieste di bis e si concludeva quando la combricola veniva cacciata fuori e risaliva le scale che aveva disceso qualche ora prima. Nessuno ricorda fischi ai tenori: erano tutti amici. Alla serata lirica ogni tanto partecipava il vecchio Greggio e il Franco Guerra e qualche altro semplice cittadino che trovava piacevole una sempre simpatica, lunga chiacchierata in cui si intrecciavano argomenti di varia natura fra cui chiaramente erano preminenti quelli speleologici: quasi mai intervennero quelli politici che furono sempre l'ultima delle argomentazioni: dentro al gruppo ce n'era di tutti i colori, ma il colore maggioritario fu sempre il nero. Il dimezzato gruppo Orsoni allora ritornava al bar Vittorio dove la serata o la notte proseguiva con chiacchiere su chiacchiere, anche dopo che gli stanchi gestori chiudevano lo spaccio, ma lasciavano disponibili tavolini e sedie.
A quei tempi Bologna notturna era veramente la meravigliosa e famosa Bologna di notte. Verso le 5 del mattino c'era il trasferimento pedibus calcantibus alla stazione centrale dove chi lo desiderava acquistava il giornale appena uscito dalle rotative e ci si sparava l'ultimo caffè. Poi tutti a nanna con la promessa di ritrovarci la mattina successiva per la domenicale escursione a grotte o calanchi.
Sempre negli anni Sessanta i legami del gruppo si allentarono perché parecchi giovani non condividevano le linee arcaiche del Francesco Orsoni: molti si diedero ad altre attività, altri si aggregarono a nuovi gruppi che assunsero posizioni più scientifiche ed iniziarono esplorazioni in varie regioni italiane ed anche estere. I vecchi del gruppo Orsoni, ligi a quell'andazzo, continuarono le loro attività sul sentiero del passato: questo nucleo formato da Gianni Venturi e i fratelli Greggio rimase sempre compatto e i tre si comportarono da amici fraterni finché Giulio se ne andò in Venezuela dove risulta essersi sposato con prole ed aver ottenuto un discreto successo personale.
Ancora negli anni Sessanta, il 22 marzo 1965 è rimasto nella memoria dei presenti la grande cerimonia offerta a Luigi Fantini per il suo settantesimo compleanno. Tutti gli speleologi e i simpatizzanti si trovarono alla sala del Trono della grotta del Farneto per dare al "vecchio"un grande tributo di stima e di affetto e formulare gli auguri di proseguire le attività intraprese. Arrivò in quel famoso luogo, portata da Guerra e Zanon, una enorme torta con settanta candeline che Fantini spense gagliardamente. Del dolce nulla rimase come del contenuto di numerosissime bottiglie di vino che si esaurì in numerosi brindisi di auguri al fondatore della speleologia bolognese del ventesimo secolo: fu il tributo giusto, all'uomo giusto, nel posto giusto.
Il trio Greggio-Venturi non amava uscire dal Bolognese e così tutti gli altri di conseguenza. Solo una volta fu organizzata per il Ferragosto del 1955 una escursione in Romagna per visitare la grotta di re Tiberio ed altre note cavità. La ditta Atti & Bassi prestò al gruppo un suo furgone Romeo dell'Alfa, guidato da Gianni Venturi, l'unico che aveva la patente e la combricola andò a scuotere la quiete di quelle sonnolente vallate romagnole: particolarmente colpita dall'invasione fu Borgo Tossignano. Fu poi organizzata un'enorme spaghettata nel greto del fiume Senio dove l'immancabile Ludovico si esibì in una straordinaria pesca "alla manazza" che strabiliò tutti: ci fu quindi modo di assaggiare pesce appena pescato e arrostito alla brace ad uso dell'uomo preistorico.
Il colpo mortale al gruppo fu determinato dalla prematura morte di Gianni Venturi che nel 1975 lasciò questo mondo consunto dal lavoro, dalle sigarette Alfa e dagli ettolitri di caffè che gli servivano a reggere un sistema di vita pesantissimo diviso fra lavoro e speleologia. Fu compianto da tutti gli amici che lo avevano frequentato perché, malgrado gli umani, difetti condusse il Francesco Orsoni per un ventennio, senza togliere alla speleologia "orsoniana" quella familiarità sempre apprezzata e ricordata da coloro che ne fecero parte. Si può asserire che in quell'anno si estinse anche questa associazione di speleologi autodidatti e libertari che videro nelle grotte un affascinante ambito in cui la natura aveva espresso le sue meraviglie e i suoi misteri.
Il Gruppo Grotte Francesco Orsoni si dissolse motu proprio anche perché non si confuse mai con regolamenti, notai, carte bollate, bollettini e burocrazia, di cui certo non necessitava, perché i collanti che tenevano insieme quei personaggi furono solo grotte ed amicizia.
E proprio l'amicizia, le grotte e i ricordi furono ciò che per qualche decennio riunì i superstiti in convivi per ricordare con una grande nostalgia quegli anni indimenticabili, anche perché per molti furono quelli di una straordinaria giovinezza. Poi lentamente ed inesorabilmente le vita fece il suo corso e quasi tutti furono accompagnati all'eterna dimora fra il dolore dei superstiti che nulla avevano dimenticato.
Il circostante mondo della speleologia, salvo coloro che ne avevano sentito l'odore, si dimenticarono di questa associazione spontanea e ciò è dimostrato dal fatto che nel web e nella letteratura non compare mai il Gruppo Grotte Francesco Orsoni, quasi una damnatio memoriae, a riprova che di certe cose, l'importante è non parlarne a maggior gloria di chi vuole farsi più grande di quanto meriti.
All’ingresso della Spipola (Burnelli, Guerra, Venturi, Iaquaniello) |
Via Marconi 22, poco prima della demolizione |
Anima del Gruppo Grotte Bolognese Francesco Orsoni fu Gianni Venturi, classe 1920. Aveva già fatto speleologia da giovanissimo nel gruppo del CAI organizzato da Luigi Fantini e aveva ripreso la passione dopo la guerra durante la quale era stato autista di "OM Taurus" in Grecia e, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 era stato prigioniero dei tedeschi e mandato in campo di concentramento. Ogni tanto ricordava la fame tremenda e la sua ricerca spasmodica del cibo fra i rifiuti di quelle infami strutture.
Dopo la guerra riprese a frequentare le grotte con Luigi Fantini e Ludovico e Giulio Greggio a cui si aggregò il giovane Giuliano Gallingani. Uno screzio staccò i quattro da Fantini che continuarono la loro attività nelle grotte della vicina vena del gesso. Ai quattro si aggiunsero poi giovani e meno giovani nelle molteplici vicissitudini del gruppo.
Gianni Venturi fu, fino alla sua morte, il coagulante del gruppo che ebbe molti presidenti, ma orbitò sempre attorno a lui per la grande passione, l'ospitalità e la magnanimità con cui trattava le persone. Il luogo d'incontro degli speleologi del Francesco Orsoni era appunto il suo laboratorio al secondo piano del 23/2 di via Roma, l'attuale via Marconi in un edificio fatiscente risparmiato dai bombardamenti alleati. Il locale tendente al nero dove si recava dopo le fatiche di muratore e faceva bottoni, era il punto di ritrovo dei familiari, le sorelle Lina e Ada e la madre Desdemona che cucinava e produceva pentole di caffè che veniva distribuito agli ospiti a bicchieri capienti. Le riunioni speleologiche si tenevano al venerdì, ma quasi tutte le sere c'era gente che veniva a fare quattro chiacchiere. Gianni, seduto vicino alla finestra seguiva la conversazione, faceva progetti e quando ce n'era bisogno costruiva le scalette col cavo da sei millimetri e con manici di scopa forniti dalla ditta Atti & Bassi. Quando si produceva scale il locale diventava una vera e propria catena di montaggio col taglio dei manici, la doppia perforazione, l'inserimento dei cavi e il bloccaggio con filo di ferro, roba oggi impensabile: mai un piolo cedette.
Altro punto focale del Gruppo era via Mondo 41, piano terreno, alle ore 7 della domenica, salvo diluvi, di quelli tosti, abitazione di Gianni, luogo di ritrovo e di partenza di quasi tutte le escursioni, partenza che avveniva dopo quattro chiacchiere e l'immancabile caffè. Gianni Venturi oltre ad essere un lavoratore indefesso e uno speleologo indefesso era anche un fumatore indefesso: le sue sigarette erano le "Alfa", che non gli mancavano mai in tasca ed in bocca. Anzi spesso era il dispensatore per i disperati del fumo privi di tabacco. Quelli che fumavano "Nazionali" o "Nazionali esportazione" si chiedevano gli ingredienti con cui erano prodotte le "Alfa", ma la manifattura tabacchi seppe conservare il segreto.
Non rifiutava mai il lavoro e accadeva che doveva lavorare anche durante la notte del sabato, ma alle ore 7 della domenica era sempre presente.
In escursione era un ottimo speleologo sempre calmo e organizzato. Nelle esplorazioni c'era sempre tutto e la sua presenza tranquillizzava tutti: una corda o una scaletta da lui fissata non lasciava dubbi ed anche persone esperte facevano controllare da lui gli attacchi. Mai mancarono carburo, beccucci, scalette e corde e lasciava sempre ai più smaniosi il piacere di aprire la strada. Quando c'era da allargare un passaggio il suo intervento di mazza e scalpello faceva miracoli. Era una specie di angelo custode.
Una volta, alla grotta del Coralupi, il Travaglini, non si sa come e perché si era incastrato in uno "spuntone" di roccia e non riusciva ad andare avanti o indietro. Si mise ad imprecate (irripetibile) finchè non intervenne il Venturi che con quattro colpi di mazza e scalpello lo liberò. Tutto finì con una salsiciata. Un'altra volta sempre il Travaglini si trovò ad arrampicarsi in una scaletta, ma al vertice, invece di trovarla ancorata, scoprì che era il Gianni, con un braccio solo a tenerla.
Il suo carattere un po' burbero gli procurò a volte dissidi con numerosi componenti del gruppo, alcuni dei quali sciamarono per fondarne altri, ma l'onestà, la passione e l'amicizia non vennero mai meno: in effetti era il parafulmine di tante situazioni. Durante le escursioni si caricava fino all'inverosimile di corde e scalette, brontolando del carico notevole, ma quando qualcuno gli chiedeva di cedergli qualcosa, rispondeva immancabilmente: Ai port me! (le porto io). Demolito lo stabile di via Roma, Gianni Venturi si trasferì in un laboratorio di via Lame seguito da tutto il gruppo e quando chiuse l'attività il gruppo si riunì nei bar che egli individuava seguito da tutti.
Gianni aveva anche un buon occhio quando andava a fossili e principalmente a minerali, ma i reperti da lui trovati avevano vita breve nelle sue mani perché bastava una vivida asserzione d'interesse da parte di chichessia che il reperto cambiava proprietario. A quei tempi attivissime furono le ricerche di rose di gesso a Castel dei Britti, di quarzi della Madonna del Ponte di Porretta Terme e di Lagaro. Altre ambite prede furono le septarie delle varie località del Bolognese, le piriti, le bariti, e i vari microcristalli della località Ca' dei Ladri fra Riola di Vergato e Porretta. I fossili per Gianni furono sempre l'ultima ruota del carro: gli unici di cui si abbia memoria furono i legni silicizzati del torrente Aneva presso Vergato, la ricerca dei quali finiva sempre con la contemplazione della cascata di san Cristoforo di Labante.
Famosi rimasero i portacenere che Gianni realizzava con l'alabastro recuperato nelle aree gessose del Bolognese, lavorati con un polverone indicibile nel laboratorio di via Roma.
Il tempo fece la sua azione e ognuno prese la sua strada, chi in altre associazioni, chi su altre strade e Gianni rimase quasi solo con l'inseparabile amico Ludovico Greggio, anch'egli solo, dopo la partenza del fratello Giulio per il Venezuela.
Morì il 24 agosto 1975 e al funerale c'erano tantissimi di quelli che lui aveva accompagnato nelle grotte, molti che lo aveva frequentato per poco tempo, molti con le lacrime agli occhi perché per qualcuno fu amico e maestro e a volte padre e fratello.
Su molti lasciò le sue impronte per la semplicità delle sue soluzioni, per il coraggio con cui affrontava i problemi, con la decisione con cui gestiva le situazioni. A molti insegnò che tante possono essere le soluzioni e che è poco intelligente ostinarsi in una soltanto. Alcuni di quelli che lo conobbero portavano e portano il basco a riprova che l'imprinting di Gianni Venturi in molti lasciò una impronta notevole.
Quel giorno cessava di esistere anche il Gruppo Grotte Bolognese Francesco Orsoni.
Qualcuno che conosceva qualcosa della speleologia bolognese, intitolò un abisso a Gianni Venturi. Se l'era meritato anche se per uno come lui sarebbe stato meglio intitolargli un buco in terra bolognese. Grazie all'anonimo speleologo friulano.
Ancora però, non risulta che qualcuno abbia intitolato qualcosa ai fratelli Greggio. Figli di un noto tenore e di una discendente di Pietro Pietramellara, eroe della Repubblica Romana del 1849, Vico e Giulio Greggio furono con Gianni Venturi la spina dorsale del Gruppo Grotte Francesco Orsoni. A dire il vero questi fratelli quasi siamesi vedevano in Vico l'attore e in Giulio la sua spalla. Tutti due di struttura "mingerlina" erano quasi sempre i primi a "sgattaiolare" dentro ai buchi più stretti o a quelli che Gianni aveva aperto con magistrale lavoro di scalpello. Il trio, già attivo prima della guerra nel gruppo CAI di Luigi Fantini, si ricostituì dopo il conflitto mondiale per continuare la fervente attività della speleologia bolognese. Come esattamente i Greggio avevano trascorso il periodo bellico è ancora un mistero perché i gloriosi racconti del Vico, affabulatore del gruppo, contrastavano con le voci di coloro che ne asserivano una diversa verità fra cui le cronache di Luigi Fantini che quei tempi li aveva vissuti in Bologna cercando come tutti di sopravvivere ai durissimi tempi dell'occupazione nazi-fascista.
Vico raccontava la sua verità con una franchezza talmente veritiera e tanta simpatia che ti obbligava di credergli. Asseriva che, come gli aveva imposto il suo credo fascista, a cui mai rinunciò, si era arruolato nella Repubblica Sociale Italiana e negli ultimi anni del conflitto per motivi che mai riuscì a spiegare, finì nella piana della Slesia, forse in Polonia a difendere i confini dell'ormai traballante terzo Reich in mezzo ai soldati della Wehrmacht. Gli episodi di sua edizione, che egli presentava agli amici speleologi sia nella sede del gruppo in via Roma, sia nei tempi di attesa dei ritardatari in via Mondo a casa di Gianni Venturi o nelle occasioni che si presentavano nelle riunioni o nelle esplorazioni, erano molteplici. Non c'era il momento definito, ma i racconti, parecchi e sempre gli stessi, ma recitati con diverse tonalità erano apprezzatissimi da tutti i presenti i quali messi in ascolto non porgevano attenzione neppure al Venturi che spesso si affaticava inutilmente ad andare in grotta.
Vico con voce forte e suadente dava sfogo ai sui molteplici e straordinari racconti di vita di cui la piana della Slesia fu sempre il teatro preferito: ecco il racconto che indelebilmente rimase impresso a tutti i componenti l'auditorio:
"Vico, appunto nella piana della Slesia, se ne stava quasi congelato sul fronte orientale a combattere i sovietici che si stavano impadronendo dei territori di quello che doveva essere il Reich del Millennio, quando chiese al comandante di una batteria piazzata in un grande bunker provvisto di un potente cannone, di essere ospitato nella fortificazione per starsene un po' al caldo. Il comandante lo scacciò con infamia e urli e Vico, ritornò alla sua postazione a soffrire il freddo non troppo lontano dalla fortificazione stessa e maledendo chi lo aveva ributtato, ma prendendosela anche con sé stesso per aver fatto certe scelte che lo avevano portato in quella lontana parte d'Europa. Per fatale combinazione un proiettile russo centrò il fortilizio nell'intersezione del cannone e, penetrato nell'interno, fece esplodere tutta la struttura, tedeschi compresi: As caven vi i grasù di tudesc (ci toglievamo via i ciccioli dei tedeschi). Al che noi spettatori rimanevamo annichiliti ed entusiasmati.
A quanto raccontavano alcune lingue (veritiere o bugiarde, non si è mai saputo) invece, l'ultimo periodo bellico il Vico lo aveva passato nella città natale; il suo vizio di "spararle grosse" lo avevano reso sospetto ai fascisti che lo arrestarono. Quando questi ultimi si resero conto che Vico era solito tagliarla larga, fecero finta di condannarlo a morte, lo portarono davanti ad un falso plotone d'esecuzione: poi lo liberarono. Si disse che la lingua gli si pietrificò fino alla fine delle ostilità.
Dopo la guerra, sempre secondo i suoi racconti, sempre convalidati dagli "Oi" di Giulio, i fratelli Greggio andarono a sminare le numerose zone dell'Appennino, e anche su questo periodo il Vico non lesinò numerose storie fra il macabro e il faceto. Risparmiamo al lettore i racconti di altri grasù di altri compagni sminatori finiti su qualche mina. La sua attività di sminatore e di esperto di esplosivi, Vico ebbe modo di dimostrarli in rare occasioni quando si dimostrò indispensabile l'uso dell'esplosivo per allargare strettoie ed aprirsi la strada per nuove esplorazioni, quando i metodi tradizionali non potevano essere usati. Tutte le detonazioni ebbero esito desiderato dimostrando che i Greggio con gli esplosivi ci sapevano fare.
Altra debolezza di Vico erano i cani piccoli e a coda alzata. L'atteggiamento del Greggio era talmente ridicolo che tutti si mettevano in ascolto delle sue esternazioni: mai deluse l'attento pubblico tirando in ballo l'uso dei detonanti con cui aveva dimestichezza. Per sua fortuna non fu mai udito da qualche componente l'Ente Nazionale Protezione Animali
Un classico ripetuto più volte quando si andava al Farneto era la sua sceneggiata all'arrivo alla grotta-madre della speleologia bolognese. Con gesti e parole irripetibili, attribuite all'uomo preistorico, chiamava la moglie intenta a spentolare con frasi che è opportuno non ripetere ma che facevano "sganassare" dalle risa.
Un altro cavallo di battaglia del Greggio erano le sue avventure amorose con ragazze minorenni (diceva lui) in cui se ne usciva con particolari e frasi che rimasero famose per decenni e che è, anche in questo caso, opportuno non trascrivere, ma le sue battaglie amorose erano particolarmente gradite ai giovanissimi che ascoltavano le prodezze dell'attempato combattente con particolare curiosità e con grande scetticismo dagli speleologi coetanei. A dire il vero non fu mai visto con una donna.
Al termine di ogni racconto che sembrava appartenere a quelli del barone di Münchhausen si rivolgeva al fratello con la fatidica frase "El veira Giuli?" (è vero Giulio?) a cui Giulio rispondeva con un classico "Oi" (si) che sembrava uscire dal profondo di una caverna.
Ricordare le varie storie del Vico sarebbe lungo, anzi lunghissimo, ma spesso la memoria non viene in aiuto.
Vico e Giulio abitavano in via Galliera al 20 in un ammezzato di un nobiliare palazzo appartenuto ai Pietramellara. L'appartamento, se si fosse potuto chiamare tale, avrebbe avuto la cucina sulla sinistra ed alcune camere sulla destra di un vasto corridoio al termine della lunga scalinata d'accesso. I Greggio condussero la loro vita in ristrettezze, ma nessuno li sentì mai chiedere qualcosa a qualcuno, ne risulta che ebbero mai soldi superiori a qualche spicciolo, ma neppure debiti. Ogni tanto Vico, voce della coppia, malediva il risorgimentale avo Pietro Pietramellara che nella difesa di Roma del 1849 ci lasciò la vita e tutti i capitali della famiglia che un secolo dopo avrebbero fatto comodo ai due speleologi. Quando gli amici se ne accorgevano era un piacere enorme offrire loro quanto si riteneva fosse di loro necessità. Per Gianni i Greggio erano come fratelli minori e la solidarietà del Venturi fu sempre superiore ad ogni affetto parentale. Quando poi Giulio Greggio migrò in Venezuela i rapporti con Gianni si accrebbero fino alla morte di quest'ultimo. L'orgoglio dei Greggio, oltre alla loro fama di bravi speleologi, era una collezione di minerali, fossili e qualche oggetto antico. Il pezzo forte della collezione era il topolino mummificato che avevano trovato nei paraggi di Gaibola. Un topo aveva fatto il nido dentro ad un vaso preistorico in cui era morto. Condizioni favorevoli ne avevano mummificato il corpo.
Qualcuno, non si sa bene chi, aveva stimato la collezione Greggio una trentina di milioni di lire e Vico si era illuso di realizzare quell'importo. La cosa si protrasse per anni e falliti tutti i tentativi di vendita, qualcuno si incaricò di farla acquistare da un Comune del Bolognese per un paio di milioni di lire (si riportano cifre riportate). La cosa imbestialì il Vico che per il resto dei suoi giorni maledì colui che aveva realizzato la transazione sciagurata ipotizzando verso questo individuo tremende vendette con armi di cui solo lui conosceva la località in cui erano nascoste a cui doveva seguire una fuga con un'ipotetica motocicletta di cui solo lui sapeva il posto dove era celata, per fuggire in Germania e nascondersi in un luogo segreto di cui solo lui conosceva l'ubicazione. Comunque nessuno vide più la collezione il cui maggior pregio era quello di essere formata di reperti esclusivamente bolognesi, alcuni dei quali di pregevole interesse.
Dopo la morte di Gianni Venturi, era frequente trovare Vico al bar della Pioggia e dintorni sempre pronto a raccontare le sue avventure speleologiche e biografiche che "imbambolavano" l'auditore. Partecipò ad alcune serate conviviali con vecchi speleologi, serate sempre vivacizzate da qualche suo racconto curioso e spesso comico.
Se ne andò in silenzio e nessuno dell'ambiente ne ebbe notizia come del luogo in cui era stato sepolto. Il suo ricordo comunque vaga ancora in coloro che lo conobbero.
Di Giulio non si ebbero più notizie.
In tutti i modi anche i Greggio attendono la loro cavità: se la sono meritata.
Si è certi che la storia, ovvero l'epopea del Francesco Orsoni, oltre a qualche sorriso, darà modo a coloro che mai conobbero fatti e persone di asserire che quella praticata da questo gruppo non può essere chiamata speleologia: come si ebbe a ribattere anni fa con uno che riteneva di doverla scrivere lui questa cronaca che mai aveva conosciuto personaggi e fatti e che poi immancabilmente buttò tutto alle ortiche, qui nessuno intraprenderà mai la terza guerra mondiale. Indubbiamente chi storcerà il naso a pensare ai residuati bellici, alle scalette con i manici di scopa e ad altri e moltissimi particolari che sembrano lontani millenni ed invece sono accaduti solo una sessantina di anni fa, indubbiamente riterrà che questo testo sia più degno di un Totò che di un Gassman. La pensi come vuole, ma si è certi che tutto ciò corrisponde a quanto accaduto ed è stato scritto da chi li ha vissuti e li ha ricordati come memoria comanda anche perché per decenni ci ha campato sopra con le sue attività e, a quel che si dice, con successo. Probabilmente si può ritenere che il Francesco Orsoni sia stata una compagnia comica oltre che speleologica. Niente di più veritiero e di sbagliato. Il Francesco Orsoni è stato una fucina di individui che, fra una risata e l'altra (grazie Vico), fra una scaletta e una lampada (grazie Gianni), fra una bussola ed un metro (grazie Giuliano) ha insegnato a molti come comportarsi in grotta. Molti di quelli che proseguirono nei via della speleologia il loro percorso umano, o in mezzo ai deserti e sui monti a trovare minerali e fossili ebbero da questa esperienza tali insegnamenti che nessun corso di attività escursionista mai poté dare. Se queste nozioni pratiche o caratteriali che molte volte furono decisive per la buona riuscita di una impresa, furono attinte dai Venturi, dai Greggio, da Gasperini e da Gallingani ed altri con il sorriso, anzi col riso a volte sonoro, questa è proprio una delle cose straordinarie di questa balla di strani (molte volte chiamati matti). Se qualcuno ne dubitasse, si ricordi che la grande scuola del grande Fantini non mancò mai di insegnare tanto fra una barzelletta, una poesia del Belli e da altre "stranezze" di cui era capace e che faceva sbellicare dalle risa oltre che a dissetare quelle persone dell'umano desiderio di vedere oltre il buio delle inesplorate grotte.
Il ricordo indelebile di questi eventi passa proprio nella felicità che tutti questi amici seppero dare, mentre ci insegnavano a cercare tante belle cose di madre natura. Il resto è pettegolezzo di bassa qualità.
Vico Greggio in azione sulla salita di Gaibola |
Il Gruppo Grotte Francesco Orsoni a monte Salvaro (1955). Da sinistra: Venturi, Cantelli, Saletta, Giulio Greggio, Gasperini, Guerra, Vico Greggio, Burnelli. |